Il terremoto del 1968 visto da Tony Zermo del quotidiano "La Sicilia"
Oggi 15 gennaio ricorre il 40° anniversario del terremoto della Valle del Belice. In tutti i comuni che nel 1968 vennero distrutti dal quel violento sisma, sono state organizzate delle manifestazioni per ricordare le numerose persone che morirono durante quel maledetto terremoto. Abbiamo recuperato un articolo di uno dei più bravi giornalisti siciliani, Tony Zermo, del quotidiano “La Sicilia”, che venne subito dopo nelle zone distrutte.
15 gennaio 1968. L’inferno comincia a Sciacca. Atterriamo di sera, su una spiaggia larga dieci metri e senza luce, con un elicottero dell’Agip pilotato dal comandante Di Falco che porta una cassa di medicinali e noi. C’è un vento gelido, il cielo di catrame. Sciacca è deserta, ieri e stanotte la città è stata scossa rudemente dalle fondamenta e la popolazione è fuggita per le campagne. Funzionano soltanto alcuni alberghi, dove sono accampati decine di superstiti, e un bar. Le linee telefoniche sono rimaste interrotte per quasi tutta la giornata. Ma il dramma è più su, a venti chilometri. Lì una volta c’era un paese che si chiamava Montevago, ora non esiste. Sono rimasti soltanto duecento morti, forse più. Ci viene incontro un carabiniere sceso con una jeep. Ci chiede quale sia la strada per Montevago. Non lo sappiamo, ma intanto saliamo a bordo. Mentre ci incamminiamo, dice: “L’avrò fatta almeno venti volte oggi, questa strada, portando feriti all’ospedale di Sciacca, ma non me la ricordo più”. Tastiamo con la mano: c’è ancora sangue fresco sui sedili. Il carabiniere si chiama Salvatore Camilleri, è di Agrigento, ma appartiene alla stazione di Casteltermini. Fino alle 4 del mattino era stato di guardia all’ufficio postale, poi era venuto il brigadiere e l’aveva spedito con alcuni suoi colleghi a Montevago. “C’è la neve sulla strada – dice -, alta venti centimetri. Anche con le catene si faticava a camminare con questa jeep. Siamo arrivati verso le 11 e già era un disastro”. La macchina ogni tanto sbanda, lo avvertiamo. “ Non è niente – risponde il carabiniere-, è che non dormo da ieri” E si frega gli occhi per svegliarsi. “Quanti morti ci sono lassù?” chiediamo. “Non so, abbiamo cercato casa per casa. Non c’è n’è una in piedi; un paio hanno resistito, ma sono tutte lesionate. I cadaveri recuperati sono finora una quindicina, ma i dispersi sono centinaia, certamente molti di essi sono ancora sotto le macerie. Io porto solo feriti, e i miei compagni scavano. Ma è pericoloso ora al buio, ci sono crolli ogni minuto. Sono passato anche da Gibellina e Menfi. Anche lì solo poche case hanno retto, ma i morti sono a Montevago”. E si frega gli occhi. Si sale verso la montagna, il tempo è da lupi. Via via incontriamo altre camionette della polizia e dei carabinieri, qualche pulman che scende. “Porta superstiti a Sciacca” dice il carabiniere. Poi piccoli gruppi di persone ai bordi della strada. Hanno sulle spalle le coperte dei loro letti, l’unica cosa che siano riusciti a prendere da casa. Alcuni, i più fortunati, cercano di riscaldarsi facendo ardere qualche pezzo di legno. Gli altri sono fermi, seduti sui piccoli cippi dei contachilometri e sulle pietre. Sembrano statue, attendono da stanotte di essere soccorsi. Un uomo ci ferma, è pallido, batte i denti dal freddo. “Avete pane?” ci chiede. Noi rispondiamo di no, che non abbiamo viveri. E il fantasma ha uno scoppio d’ira: “Che siete venuti a fare, allora?”. E ci guarda con occhi di fuoco. Molti assembramenti di auto sui prati, somigliano a carovane di zingari. È la gente “ricca”, che possiede una macchina e può dormirvi dentro, al riparo dai crolli. Ma stanotte, molti che dormivano dentro le auto vicino a qualche edificio, sono rimasti schiacciati dal crollo dei muri. Adesso nei paesi non è rimasto nessuno, sono tutti dispersi in campagna. Anche per questo è difficile fare la conta dei morti. Passiamo da Santa Margherita di Belice, ogni tanto cadono fiocchi di neve. Non c’è anima viva, come ai tempi dei bombardamenti. Metà delle case è crollata, alcune auto schiacciate sembrano tragici scarafaggi. Le luci della jeep illuminano a terra i soliti rimasugli di ogni disastro: letti, frigoriferi, scarpe, giocattoli, c’è perfino una campana caduta da una chiesa spaccata a metà. E poi un gran silenzio, un silenzio di morte. Sapevamo che la strada era stata liberata dai militi per facilitare il passaggio dei soccorsi, ma ad un certo punto la troviamo bloccata da alcuni massi. “Quando sono passato poco fa –dice il carabiniere- non c’erano, ci deve essere stato un altro crollo nel frattempo”. Spostiamo a fatica i massi e procediamo con cautela. Vicino c’è un edificio a sei piani in costruzione. Lo superiamo con una punta di panico. Ancora pochi chilometri, un’agghiacciante colonna di gente accampata alla meno peggio, di mani che si protendono nel buio. Poi arriviamo a quella che fu Montevago. “Da qui –dice il carabiniere- è impossibile proseguire. Montevago è crollata tutta, anche le strade” E ci saluta. Troviamo un piccolo assembramento di gente, militi, un paio di medici, alcuni sacerdoti e qualche deputato. Montevago è tutta qui. Ci inoltriamo per qualche decina di metri dove ci sono solo macerie, polvere di mattoni ancora sospesa a mezz’aria, e poi buio infinito, come se il mondo finise qui, a Montevago. Il buio è rotto solo da una luce, è un gruppo elettrogeno dei vigili del fuoco di Sciacca, non ne sono arrivati altri. Parlo con l’ufficiale più alto in grado, il capitano Leone. “Ci sono qui centocinquanta uomini -dice-, finora abbiamo estratto 14 cadaveri. I feriti sono innumerevoli, vengono avviati a Sciacca e Agrigento”. Ma in questo momento gli uomini lavorano? “No, non abbiamo luce, e c’è pericolo di crolli ad ogni movimento. Riprenderemo domani appena fa giorno”. “Ma sotto le macerie ci sono ancora centinaia di vivi. Da qui a domani moriranno” diciamo. L’ufficiale non risponde, non può rispondere, non sa perché non sono arrivati i gruppi elettrogeni da Palermo. Non sa che fine hanno fatto i vagoni volanti partiti da Ciampino carichi di viveri, tende e coperte. Non sa come dire, se non “aspettate”, alla tragica teoria di persone che stanno li mute, a pochi metri da lui, nella speranza che qualcuno si ricordi di loro. Il dramma maggiore forse è questo, il dramma dei sopravvissuti. C’è un paese che crolla, che viene cancellato dalla faccia della terra, la cui popolazione è decimata. Tutto in una sola notte, e lo Stato non riesce con la rapidità necessaria ad assicurare un ricovero e un pezzo di pane ai superstiti, nemmeno 24 ore dopo il disastro. D’accordo, Montevago era soltanto un piccolo paesino in mezzo alle montagne, era lontano, le comunicazioni erano difficili, le linee telefoniche interrotte, ma non si trattava di andare nel cuore dell’Africa. Montevago era pur sempre un pezzo di casa nostra. Così mentre il governo diramava ottimistici comunicati di “mobilitazione generale”, i massicci invii di colonne di soccorso, mentre la pletorica macchina d’emergenza si metteva in azione, gli agonizzanti sotto le macerie di Montevago avevano il tempo di esalare l’ultimo respiro. Mentre scrivo queste note alla luce della fotoelettrica, sento le grida soffocate di quanti stanno sotto le macerie, a pochi metri da me, come se fosse un grande rantolo nella notte. (Tony Zermo, La Sicilia del 16 Gennaio 1968)
15 gennaio 1968. L’inferno comincia a Sciacca. Atterriamo di sera, su una spiaggia larga dieci metri e senza luce, con un elicottero dell’Agip pilotato dal comandante Di Falco che porta una cassa di medicinali e noi. C’è un vento gelido, il cielo di catrame. Sciacca è deserta, ieri e stanotte la città è stata scossa rudemente dalle fondamenta e la popolazione è fuggita per le campagne. Funzionano soltanto alcuni alberghi, dove sono accampati decine di superstiti, e un bar. Le linee telefoniche sono rimaste interrotte per quasi tutta la giornata. Ma il dramma è più su, a venti chilometri. Lì una volta c’era un paese che si chiamava Montevago, ora non esiste. Sono rimasti soltanto duecento morti, forse più. Ci viene incontro un carabiniere sceso con una jeep. Ci chiede quale sia la strada per Montevago. Non lo sappiamo, ma intanto saliamo a bordo. Mentre ci incamminiamo, dice: “L’avrò fatta almeno venti volte oggi, questa strada, portando feriti all’ospedale di Sciacca, ma non me la ricordo più”. Tastiamo con la mano: c’è ancora sangue fresco sui sedili. Il carabiniere si chiama Salvatore Camilleri, è di Agrigento, ma appartiene alla stazione di Casteltermini. Fino alle 4 del mattino era stato di guardia all’ufficio postale, poi era venuto il brigadiere e l’aveva spedito con alcuni suoi colleghi a Montevago. “C’è la neve sulla strada – dice -, alta venti centimetri. Anche con le catene si faticava a camminare con questa jeep. Siamo arrivati verso le 11 e già era un disastro”. La macchina ogni tanto sbanda, lo avvertiamo. “ Non è niente – risponde il carabiniere-, è che non dormo da ieri” E si frega gli occhi per svegliarsi. “Quanti morti ci sono lassù?” chiediamo. “Non so, abbiamo cercato casa per casa. Non c’è n’è una in piedi; un paio hanno resistito, ma sono tutte lesionate. I cadaveri recuperati sono finora una quindicina, ma i dispersi sono centinaia, certamente molti di essi sono ancora sotto le macerie. Io porto solo feriti, e i miei compagni scavano. Ma è pericoloso ora al buio, ci sono crolli ogni minuto. Sono passato anche da Gibellina e Menfi. Anche lì solo poche case hanno retto, ma i morti sono a Montevago”. E si frega gli occhi. Si sale verso la montagna, il tempo è da lupi. Via via incontriamo altre camionette della polizia e dei carabinieri, qualche pulman che scende. “Porta superstiti a Sciacca” dice il carabiniere. Poi piccoli gruppi di persone ai bordi della strada. Hanno sulle spalle le coperte dei loro letti, l’unica cosa che siano riusciti a prendere da casa. Alcuni, i più fortunati, cercano di riscaldarsi facendo ardere qualche pezzo di legno. Gli altri sono fermi, seduti sui piccoli cippi dei contachilometri e sulle pietre. Sembrano statue, attendono da stanotte di essere soccorsi. Un uomo ci ferma, è pallido, batte i denti dal freddo. “Avete pane?” ci chiede. Noi rispondiamo di no, che non abbiamo viveri. E il fantasma ha uno scoppio d’ira: “Che siete venuti a fare, allora?”. E ci guarda con occhi di fuoco. Molti assembramenti di auto sui prati, somigliano a carovane di zingari. È la gente “ricca”, che possiede una macchina e può dormirvi dentro, al riparo dai crolli. Ma stanotte, molti che dormivano dentro le auto vicino a qualche edificio, sono rimasti schiacciati dal crollo dei muri. Adesso nei paesi non è rimasto nessuno, sono tutti dispersi in campagna. Anche per questo è difficile fare la conta dei morti. Passiamo da Santa Margherita di Belice, ogni tanto cadono fiocchi di neve. Non c’è anima viva, come ai tempi dei bombardamenti. Metà delle case è crollata, alcune auto schiacciate sembrano tragici scarafaggi. Le luci della jeep illuminano a terra i soliti rimasugli di ogni disastro: letti, frigoriferi, scarpe, giocattoli, c’è perfino una campana caduta da una chiesa spaccata a metà. E poi un gran silenzio, un silenzio di morte. Sapevamo che la strada era stata liberata dai militi per facilitare il passaggio dei soccorsi, ma ad un certo punto la troviamo bloccata da alcuni massi. “Quando sono passato poco fa –dice il carabiniere- non c’erano, ci deve essere stato un altro crollo nel frattempo”. Spostiamo a fatica i massi e procediamo con cautela. Vicino c’è un edificio a sei piani in costruzione. Lo superiamo con una punta di panico. Ancora pochi chilometri, un’agghiacciante colonna di gente accampata alla meno peggio, di mani che si protendono nel buio. Poi arriviamo a quella che fu Montevago. “Da qui –dice il carabiniere- è impossibile proseguire. Montevago è crollata tutta, anche le strade” E ci saluta. Troviamo un piccolo assembramento di gente, militi, un paio di medici, alcuni sacerdoti e qualche deputato. Montevago è tutta qui. Ci inoltriamo per qualche decina di metri dove ci sono solo macerie, polvere di mattoni ancora sospesa a mezz’aria, e poi buio infinito, come se il mondo finise qui, a Montevago. Il buio è rotto solo da una luce, è un gruppo elettrogeno dei vigili del fuoco di Sciacca, non ne sono arrivati altri. Parlo con l’ufficiale più alto in grado, il capitano Leone. “Ci sono qui centocinquanta uomini -dice-, finora abbiamo estratto 14 cadaveri. I feriti sono innumerevoli, vengono avviati a Sciacca e Agrigento”. Ma in questo momento gli uomini lavorano? “No, non abbiamo luce, e c’è pericolo di crolli ad ogni movimento. Riprenderemo domani appena fa giorno”. “Ma sotto le macerie ci sono ancora centinaia di vivi. Da qui a domani moriranno” diciamo. L’ufficiale non risponde, non può rispondere, non sa perché non sono arrivati i gruppi elettrogeni da Palermo. Non sa che fine hanno fatto i vagoni volanti partiti da Ciampino carichi di viveri, tende e coperte. Non sa come dire, se non “aspettate”, alla tragica teoria di persone che stanno li mute, a pochi metri da lui, nella speranza che qualcuno si ricordi di loro. Il dramma maggiore forse è questo, il dramma dei sopravvissuti. C’è un paese che crolla, che viene cancellato dalla faccia della terra, la cui popolazione è decimata. Tutto in una sola notte, e lo Stato non riesce con la rapidità necessaria ad assicurare un ricovero e un pezzo di pane ai superstiti, nemmeno 24 ore dopo il disastro. D’accordo, Montevago era soltanto un piccolo paesino in mezzo alle montagne, era lontano, le comunicazioni erano difficili, le linee telefoniche interrotte, ma non si trattava di andare nel cuore dell’Africa. Montevago era pur sempre un pezzo di casa nostra. Così mentre il governo diramava ottimistici comunicati di “mobilitazione generale”, i massicci invii di colonne di soccorso, mentre la pletorica macchina d’emergenza si metteva in azione, gli agonizzanti sotto le macerie di Montevago avevano il tempo di esalare l’ultimo respiro. Mentre scrivo queste note alla luce della fotoelettrica, sento le grida soffocate di quanti stanno sotto le macerie, a pochi metri da me, come se fosse un grande rantolo nella notte. (Tony Zermo, La Sicilia del 16 Gennaio 1968)